Foreign Fighters e jihad: intervista a Majid Capovani.
Majid Capovani, scrittore militante trans, queer e kemetista, è autore del romanzo L’esercito dei soli che ha per tema i combattenti stranieri e la jihad
Militante per i diritti delle persone LGBT+, Majid Capovani, che nel suo account Instagram si definisce Trans, queer, bi, autistico, kemetista, femminista… Insomma, il demonio, è l’autore di un romanzo, L’Esercito dei Soli, pubblicato dalla casa editrice inKnot, che sarà presentato lunedì 25 settembre, a Napoli, presso il caffè letterario Il Tempo del Vino e delle Rose in piazza Dante, nell’ambito della manifestazione letteraria Poetè, giunta alla sia quindicesima edizione. Un romanzo d’esordio duro e asciutto, che racconta la storia di Romeo, un diciottenne inquieto e insoddisfatto, sostanzialmente fragile, che entra in contatto con i cosiddetti foreign fighters, combattenti stranieri che aderiscono all’ideologia dell’ISIS abbracciando la visione jihadista, e viene velocemente catapultato nel mondo violento e spietato degli estremisti islamici e dei loro progetti criminosi. Così, in una sera di maggio, Romeo partirà per raggiungere il gruppo al campo di addestramento nella penisola del Sinai. Arruolatosi col nome di Majid Al’itali, ben presto capirà di essere finito in un inferno e che i compagni idealizzati sono in realtà un gruppo disumano. La nuova vita che gli viene imposta non è quella che immaginava, esecuzioni, decapitazioni e torture sono all’ordine del giorno. Con il passare dei mesi accetta che non c’è via di scampo. Al campo vige una sola regola: o uccidi o sei ucciso.
Per saperne di più sul suo romanzo, contattiamo telefonicamente l’autore.
“L’esercito dei soli” – tuo romanzo d’esordio – racconta una storia di frustrazione e dolore che intreccia le questioni legate al reclutamento jihadista nei Paesi Occidentali e la scelta di vita dei foreign fighters. Da cosa nasce l’interesse per queste tematiche? Quali elementi -a tuo parere- spingono la diffusione dello jihadismo nelle democrazie europee?
Ho cominciato a interessarmi seriamente al tema all’inizio del 2015, quando, a seguito dell’attentato a Charlie Hebdo, si è cominciato a parlare sempre più spesso di Daesh (lo Stato Islamico) e dei foreign fighters. Mi chiedevo come fosse possibile che persone anche molto giovani lasciassero tutto per andare a combattere e a vivere in mezzo all’orrore. Le persone intorno a me evitavano il più possibile l’argomento, così ho cominciato a fare ricerche per conto mio. Volevo capire quali fossero le ragioni profonde di tutto questo, ma sono arrivato alla conclusione che una ragione univoca non esista. In generale, non è possibile delineare un profilo psicologico o sociologico univoco di coloro che partono, si tratta di un fenomeno complesso, sfaccettato e trasversale e le motivazioni sono le più disparate, da quelle più profonde a quelle più banali. La causa principale non è da ricercarsi nell’Islam, quanto piuttosto in una serie di fattori: in primis una cultura e un’estetica che esalta la violenza e che permea la nostra stessa società che si lega ad una radicale contestazione di carattere generazionale e al disagio giovanile che non sappiamo accogliere e a cui non sappiamo dare una risposta che non sia solo di tipo punitivo, come dimostrano anche i fatti recenti. I jihadisti sono pienamente figli del proprio tempo e delle società in cui sono cresciuti. L’Islam in questi casi svolge solo una funzione di cornice ideologica. Come afferma Olivier Roy, non siamo davanti a una radicalizzazione dell’Islam, ma a un’islamizzazione della radicalità, che è un concetto ben diverso.
Il protagonista del romanzo, Romeo, è un ragazzo inquieto e insoddisfatto. Quali sono le ragioni profonde di questa inquietudine? Inoltre, non sfugge al lettore che il “nome di battaglia”, da combattente, scelto dal protagonista Romeo è proprio Majid, il tuo nome. Quale porzione del tuo vissuto personale o della tua identità, oltre al nome, hai trasferito nella costruzione del personaggio?
Romeo è un ragazzo che per tutta la vita si è sentito messo al margine, che convive con grosse insicurezze e fragilità derivanti anche da una situazione familiare difficile e queste circostanze l’hanno portato a nutrire una rabbia cieca e un desiderio di rivalsa tali da impedirgli di analizzare in profondità la decisione che sta prendendo. È un ragazzo che, com’è normale in quella fascia d’età, è alla ricerca di un senso di appartenenza a un gruppo, dopo un’esistenza trascorsa in solitudine. La consapevolezza dell’errore che ha commesso lo spingerà a mettersi in discussione e a intraprendere quello che è un percorso di redenzione e di scoperta del suo sé più autentico. In realtà, questo libro trabocca di riferimenti autobiografici, mi piace definirlo un “diario allegorico”. Gli aspetti autobiografici nascosti riguardano la scoperta della mia identità trans e il percorso che ne è derivato. Quando ho cominciato a scriverlo, non avevo ancora scelto un nuovo nome per me e per una serie di motivi ho finito per scegliere il nome che avevo dato al protagonista. Ho avuto modo di constatare che spesso chi sa che sono un ragazzo trans riesce a “leggere tra le righe” e a trovare i riferimenti e i parallelismi presenti all’interno del testo.
Il romanzo, toccando il tema dello jihadismo, tocca la questione religiosa, legata all’islamismo. Sbirciando la tua biografia, scopriamo che tu hai abbracciato il Kemetismo, una fede di origine orientale pre-abramitica. Puoi spiegarci di che tipo di culto si tratta e come e perché hai deciso di praticarlo?
Il Kemetismo sarebbe la religione dell’antico Egitto. Mi sono convertito nel 2015, perché la sentivo intimamente mia, nessun’altra fede mi aveva fatto scattare la stessa sensazione di appartenenza. Gli insegnamenti kemetici pongono l’accento sul fatto che ci sia un’unica entità creatrice chiamata Netjer che, al contrario delle sue emanazioni, risulta incomprensibile alla mente umana. Queste emanazioni, chiamate Netjeru, sono le divinità egizie che conosciamo. Netjer è la vita stessa e ogni kemetista tende a focalizzare la propria fede sulla divinità che più si avvicina alla sua concezione della realtà e al suo essere. Alla base della nostra etica vi è la legge cosmica di Maat, con le sue 42 leggi, i cui fondamenti sono: giustizia, verità, equilibrio e armonia. C’è al contempo una concezione molto importante, ovvero il fatto che tutta la creazione sia un insieme di forme varie e molteplici, di punti di vista e idee sfaccettate e diversificate. Il Kemetismo accentua, infatti, i valori di rispetto e amore nei confronti della vita in ogni sua forma, diversità e particolarità. Nell’ultimo anno, ho messo in atto un sincretismo con l’Islam, altra fede che esploro e approfondisco da tempo. Attualmente, faccio parte anche della moschea Al-Kawthar, la prima moschea femminista e inclusiva d’Italia. So che a molte persone può sembrare una cosa assurda, ma sono convinto che anche la fede possa essere in un certo senso “non binaria”. Per me avere fede significa questo: non rimanere rigidamente attaccati a sterili dogmi, ma esplorare, interrogarsi, aprirsi ai sincretismi e alle contaminazioni.
Infine, tu sei anche un attivista per i diritti delle persone queer e transgender e collabori attivamente con l’associazione Genderlens. Nel 2021 hai anche denunciato sui social di aver subito una violenza ginecologica. Ci racconti, dal tuo osservatorio, come giudicheresti oggi la situazione delle persone trans e non binarie nel nostro Paese, in termini di riconoscimento dei diritti e di percezione sociale? Uno scrittore “militante” come te, in che modo può supportare la battaglia della comunità queer? In che modo potrebbe fare la differenza?
I diritti delle persone transgender e non binarie, così come i diritti di molte altre persone marginalizzate, sono attualmente sotto attacco e sono molto preoccupato per la piega che la situazione sta prendendo. I percorsi di affermazione di genere continuano a essere estremamente normati e ostacolati; il diritto all’autodeterminazione nel nostro Paese è inesistente. Nonostante le identità trans siano state rimosse dalla lista dei disturbi mentali nel 2018, la patologizzazione è ancora molto forte. Le nostre identità vengono usate come spauracchio per la popolazione, attraverso bufale come quella dell’inesistente teoria gender, andando ad alimentare disinformazione e allarmismi vari. C’è ancora molta strada da fare, ma quello che più mi preoccupa è l’assenza quasi totale di una reazione decisa e unitaria in difesa di questi diritti: secondo me si sta facendo ancora troppo poco e troppe persone hanno paura di esporsi su questi temi. Dobbiamo sempre tenere presente che i diritti non vanno mai dati per scontati o considerati acquisiti una volta per tutte, ma vivono solo nella misura in cui noi li facciamo vivere. Sia come scrittore che come persona cerco di fare la mia parte, organizzando e prendendo parte a formazioni, facendo attivismo online e offline. Questo mio romanzo non sarà l’unico, ce ne saranno altri; attualmente sto lavorando a un secondo libro. Ed è anche attraverso di essi che voglio provare a far riflettere, perché porsi le giuste domande rappresenta spesso il punto di partenza fondamentale per il cambiamento.
Claudio Finelli