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Intervista a Igor Esposito curatore de La tua lingua è una luna calda di Bruno Montané Korbs:  nei versi di Montané si percepisce che la  poesia sgorga perché non può fare altrimenti

Intervista a Igor Esposito curatore de La tua lingua è una luna calda di Bruno Montané Korbs:  nei versi di Montané si percepisce che la  poesia sgorga perché non può fare altrimenti

Cultura Queer

3 Maggio 2024

Di: Radio Pride

Claudio Finelli

Venerdì 3 Maggio, presso Le Scalze, all’interno del Festival delle Librerie Indipendenti in Relazione, è in programma la presentazione del volume La tua lingua è una luna calda del poeta cileno Bruno Montané Krebs, edito dalla casa editrice Magmata.

Montané è considerato uno dei migliori poeti cileni viventi, nato a Valparaiso nel 1957, ha vissuto a Città del Messico dal 1974 al 1976, dove ha fondato, con Roberto Bolano e Mario Santiago, il movimento poetico Infrarealismo. Risiede dal 1975 a Barcellona e qui ha fondato, insieme ad Ana Maria Chagra, la casa editrice Ediciones Sin Finche che offre oggi il miglior catalogo di poesia infrarealista. Col nome di Felipe Muller incarna uno dei personaggi del capolavoro di Roberto Bolano I detective selvaggi.

Per saperne di più su Bruno Montané Krebs e su La tua lingua è una luna calda, incontriamo il poeta e drammaturgo Igor Esposito che ha curato e tradotto il volume.

Igor, per la casa editrice Magmata hai appena curato e tradotto La tua lingua è una luna calda di Bruno Montané Krebs, poeta cileno ascrivibile alla corrente dell’infrarealismo. Potresti sinteticamente restituirci un identikit di questo autore? Come è avvenuto il tuo incontro con l’opera di Montané Krebs?

Bruno Montané nasce a Valparaiso nel 1957. Il padre era un archeologo e la madre una pittrice. Potremmo dire che come poeta si è formato a Città del Messico dove arriva fuggendo dalla dittatura di Pinochet. Nella megalopoli messicana incontra Roberto Bolaño e Mario Santiago Pasquiaro. Nasce una grande amicizia il cui collante è la passione per la poesia. I tre amici, insieme ad altri poeti, fondano il movimento poetico dell’Infrarealismo. Si barcamenano nella labirintica Città del Messico, svolgendo precari e umilissimi lavori. Pubblicano le loro poesie su riviste dalla breve vita. Si riuniscono nel caffè Habana di calle Bucareli. Sono incendiari e amano “il sogno di una cosa” o più semplicemente l’utopia di un mondo migliore. Venerano i surrealisti. Sono promiscui. Leggono voracemente. E colpiscono, riprendendo alcune modalità delle avanguardie storiche, l’establishment letterario. Nel 1976 Bruno Montané si trasferisce a Barcellona dove tuttora risiede. Viene raggiunto dal suo amico Bolaño e insieme danno vita a due riviste di poesia: Rimbaud vuelve a casa e Berthe Trépat. Il nome di quest’ultima rivista è un omaggio al grande scrittore argentino Julio Cortázar e all’omonima pianista che prende vita nel suo romanzo capolavoro Rayuela. A Barcellona Montané pubblica diverse raccolte di poesia, riunite in seguito nel volume El futuro. Poesia reunida 1979-2016 edito dall’editore Candaya nel 2018. Il mio incontro con la poesia di Montané è avvenuto grazie a Roberto Bolaño, di cui ho letto tutta l’opera. E quando mi sono immerso nei sui saggi e discorsi, pubblicati nel volume Tra parentesi,ho scoperto quella che potrebbe definirsi la miniera Bolaño della Poesia. Ovvero una serie di poeti che Bolaño nomina, analizza, difende ed esalta. Subito però mi sono reso conto che questi poeti in Italia sono per la maggior parte inediti e così ho deciso di tradurli.

Nella prefazione alle poesie di Montané Krebs, il poeta Elio Pecora sostiene che l’opera di questo autore cileno “nasce dalla febbre del dire oltre il possibile e l’eccesso, in una ricerca inesausta di verità fuori da compromissione e ornamento”. Come spiegheresti ai nostri lettori questa “febbre del dire” di cui parla Pecora, a proposito della poetica di Montané Krebs?

La febbre del dire fuori da compromissione e ornamento, che ha percepito Elio Pecora nei versi di Bruno Montané, credo abbia a che fare con la natura stessa dell’atto poetico. Il poeta autentico non scrive poesie, bensì è scritto dalla poesia. Uno dei miei maestri, il poeta Franco Loi, mi recitava sempre i versi di Dante che inverano ciò che ho appena detto: “I’ mi son un che quando/Amor mi spira, noto e a quel modo/ch’e’ ditta dentro vo significando”. In Italia ci sono troppi poeti che scrivono poesie come se pisciassero, forse non ricordano che tra una raccolta e l’altra di Montale passano circa dieci anni. Un gigante come Gottfried Benn ha scritto: “bisogna continuare a portare in sé i motivi, per anni, si deve saper tacere. Valery tacque per vent’anni, Rilke non scrisse per quattordici anni nessuna poesia, poi apparvero le Elegie duinesi.” E Rilke stesso sottolinea che “bisogna saper attendere e raccogliere (…) Perché i versi non sono, come crede la gente, sentimenti sono esperienze”. E allora eccoci al dunque: nei versi di Montané, come anche negli altri poeti amati da Bolaño, si percepisce che la  poesia sgorga perché non può fare altrimenti e si sente il vibrato di esperienze vitali degne di nota. Nulla di ornamentale, nessun esercizio di stile, bensì nuda vita che spesso nel caso di questi poeti è stata soprattutto orrore e violenza. E allora non hanno tempo per svolgere il compitino del poeta professore o sacerdotale e pretesco. E a proposito di compitini mi vengono in mente le parole che Pasolini scrisse nel 1973 sul settimanale Tempo: “In Italia c’è un numero enorme di poeti che scrivono delle poesie come se svolgessero dei compiti. Pare non vogliano fare fatica, e cerchino di ottenere il successo (sia pur limitato a pochi intenditori) facendo dire di sé ciò che è stato detto di altri, grandi e pateticamente invidiati. Non è una vera e propria imitazione; e non è neanche una adesione a una scuola, a un gusto. È semplicemente stupidità piccolo-borghese, che crede che il perbenismo sia tutto. Le loro esperienze, del resto, non si distinguono in niente dalle esperienze di qualsiasi piccolo-borghese italiano: un po’ di malinconia, un grande rispetto per le cose in sé stesse, quelle ammodo, qualche viaggio, qualche amoretto reso modicamente metafisico, corretto però da un fare vagamente mondano, in cui si sente il sapore dello stipendio”.

Lavorando sull’opera di Montané, hai avuto modo di intercettare anche la drammatica vicenda del poeta messicano omosessuale Dario Galicia. Puoi raccontarci la sua storia? Che ruolo ha avuto Montané nel tuo incontro con i versi di Galicia? Come omaggerai, a breve, i versi di Galicia?

La storia di Darío Galicia mi spacca il cuore e non è retorica né sentimentalismo a basso costo. Sono arrivato alla sua poesia grazie a Bruno Montané che mi ha regalato un suo libro La ciencia de la tristeza, pubblicato dalla casa editrice Ediciones Sin Fin, che Bruno ha fondato a Barcellona con Ana María Chagra. Ricordavo il suo nome perché anni fa avevo letto una poesia di Bolaño La visita al convalescente. Ma non sapevo altro. Bruno mi ha raccontato la straziante vicenda del suo amico poeta che incarna il personaggio di Ernesto Sant’Epifanio nel romanzo I detective selvaggi. È stato il primo poeta messicano a cantare l’amore omossessuale. Studiò danza e letteratura all’Università. Tradusse meravigliosamente molti poeti inglesi. Ma purtroppo nel 1976, a soli 23 anni, fu colpito da un aneurisma. Subì due operazioni e sulle due operazioni aleggia un sospetto. C’è chi pensa, come Roberto Bolaño, che i genitori di Darío sfruttando l’aneurisma e d’accordo con i medici, cercarono di praticare una lobotomia per estirpare dal cervello del figlio la sua omosessualità. Sembra un film dell’orrore. Ma in America Latina tutto è possibile, e spesso la bellezza e l’orrore vanno a braccetto. Una cosa è certa: negli ultimi anni della sua vita Darío Galicia scomparve dalla circolazione e fu considerato un disperso. In realtà vagò come un barbone per le strade di Città del Messico, senza casa e in povertà. Fino a che si misero sulle sue tracce i poeti Mario Raul Gúzmàn, Luis Antonio Gómez e la scrittrice Ana Clavel. Lo ritrovarono, dopo mesi di ricerca, nell’aprile del 2019 nel paese di Sant’Andrés Tetepilco. Aveva 66 anni, una memoria e una salute devastata. Morì otto mesi dopo essere stato ritrovato. Ha dichiarato Ana Clavel: “È molto triste che un poeta selvaggio come Darío Galicia muoia quando abbiamo iniziato a recuperarlo. L’emarginazione e l’abbandono in cui visse per anni ci ricorda la crudeltà che la vita impone a chi è toccato dalla grazia della sensibilità e della trasgressione. Come se il suo libro: La scienza della tristezza fosse oracolare”. Io omaggerò le sue poesie a settembre, grazie all’acutezza e alla sensibilità del Festival Letteratura di Mantova che mi ha proposto tre serate, dove andrà in scena una conferenza spettacolo dal titolo “I poeti selvaggi di Roberto Bolaño. Indagine su cittadini poco raccomandabili”. Io sarò la voce narrante e l’attore Giovanni Ludeno la voce lirica e saremo accompagnati dal musicista Massimo Cordovani. Sarà il frutto dei miei tre anni di lavoro sulla traduzione dei poeti che il mio amico immaginario, el querido Roberto, mi ha regalato.