Leigh Bowery: arte dell’eccesso e sovversione dell’identità
Tate celebra l'icona queer e la "mostruosità" visionaria di Leigh Bowery

Leigh Bowery (1961–1994) è stato uno degli artisti più disturbanti, iconoclasti e visionari della fine del XX secolo. A lui è dedicata una straordinaria mostra alla Tate Modern di Londra – visitabile fino al 31 agosto – che consiglio di andare a visitare e che è, sicuramente, uno degli eventi culturali del 2025, soprattutto in una fase storica che vede un attacco concentrico alla queer culture; attacco cui, sembra, il Regno Unito si sta sottraendo.
Performer, stilista, creatore di club e musa
Bowery ha incarnato nella sua breve vita, interrotta dall’AIDS a soli 33 anni, una figura liminale tra arte e moda, tra vita e spettacolo, tra corpo e costruzione dell’identità. La sua estetica, fatta di eccessi, grottesco e spettacolarizzazione del sé, continua a sfidare le categorie tradizionali del gusto e dell’identità artistica.
Il corpo di Bowery, come ben documenta la mostra londinese, è un’arma visiva. Nelle sue performance – sfilata, apparizione al club, spettacolo sul palco – il corpo veniva deformato, stratificato, esagerato fino al punto di diventare quasi irriconoscibile. Il filosofo Paul B. Preciado, nel parlare del rapporto tra tecnologia, corpo e politica, potrebbe vedere in Bowery uno dei primi esempi di “soggettività hackerata”: un corpo che si rifà continuamente, che si auto-programma, che sfugge alla categorizzazione normativa.
Ricerca della “mostruosità” per disintegrare lo spettatore
A differenza delle drag queen classiche o delle estetiche camp, Bowery non cercava la femminilizzazione, ma la mostruosità. Il suo obiettivo non era “rappresentare” qualcosa, ma disintegrare lo spettatore. Ogni costume, come quelli splendidi esposti alla Tate, era un cortocircuito tra l’organico e l’artificiale, tra il desiderio e il disgusto.
Bowery incarna la teoria secondo cui l’appartenenza ad esempio a un genere, non è un destino ma una pratica (politica). La sua vita è stata la dimostrazione del fatto che l’identità non è qualcosa che si è, ma qualcosa che si fa continuamente. La costruzione della maschera non è una fuga, ma una dichiarazione. In lui non c’è mai un “dietro le quinte” rassicurante, un volto autentico da ritrovare: c’è solo il costume, la provocazione, la vita.
D’altronde, la mostra della Tate è, in qualche modo, anche una “istituzionalizzazione” del gesto artistico di Bowery e la sua canonizzazione nel mainstream. La sua estetica è stata adottata, remixata, commercializzata. Oggi la sua immagine circola sui social, in editoriali di riviste d’arte e account queer-friendly (come quello di chi scrive).
Quindi: la sua estetica è ancora un atto radicale o è diventata un brand?
Baudrillard avvertiva che la società dello spettacolo non reprime le immagini sovversive, ma le ingloba, le sterilizza, le riproduce in forma di simulacro. Bowery, in questo senso, è una vittima del suo stesso successo. Forse, però, ciò che resta davvero critico del lavoro di Leigh Bowery oggi è il suo rifiuto dell’“autenticità”. In un mondo ossessionato dal self branding, dalla trasparenza emozionale, dal narcisismo come strategia comunicativa, Bowery ci ricorda che anche la maschera è verità. Anzi: che la maschera può essere più vera del volto.
In un’epoca in cui la trasgressione è spesso preconfezionata, algoritmica e vendibile, Bowery resta una figura scomoda. Non un modello da seguire, ma un enigma da affrontare. E forse proprio in questo sta la sua grandezza.
Per approfondire: Sue Tilley, Leigh Bowery. The Life and Times of an Icon, Thames & Hudson (2025)
