Ti è piaciuto il nostro articolo? Clicca qui e leggi gli altri!
Linguistica LGBT: cos’è e perché è importante
“Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola. A volte ne scrivo una, e la guardo, fino a quando non comincia a splendere.”
Così Emily Dickinson ha racchiuso perfettamente l’importanza (e talvolta la letalità) delle parole. Attraverso la lingua non soltanto abbiamo potuto assistere a cambiamenti politici e sociali, ma anche all’affermarsi di culture diverse dalla nostra. Attraverso la parola c’è la conoscenza, e attraverso la conoscenza c’è la libertà.
E, nel nostro caso, l’ottenimento di diritti civili e politici. Come mai? Scopriamolo insieme.
Il linguaggio è la prima nonché l’unica arma attraverso la quale poter esprimere le nostre opinioni, attraverso la quale poter affermare le nostre istanze di rivendicazione. Fu William Leap nel 1990 a introdurre per primo il filone della “LGBT linguistics” (conosciuta anche come “Lavender linguistics” per la lunga associazione del colore lavanda alle comunità LGBT) ovvero di quella linguistica che si occupa delle persone LGBT+.
Leap afferma che “[la linguistica LGBT] comprende una vasta gamma di pratiche linguistiche quotidiane”. In senso più generale, “la linguistica queer (o LGBT) si riferisce all’analisi linguistica riguardante l’effetto dell’eteronormatività sull’espressione dell’identità sessuale attraverso il linguaggio.”
Spostandoci nell’attualità, assistiamo quotidianamente a dimostrazioni concrete di quanto il modo di comunicare possa impattare sull’intera società e soprattutto sulle condizioni di benessere psicologico dei singoli.
Lingue romanze come l’italiano, caratterizzate da genere grammaticale (e dunque dal binarismo maschile/femminile) rendono complesso il processo di neutralizzazione della lingua, adottato invece già ampiamente da numerose nazioni della comunità europea. In sede di Parlamento Europeo, è infatti obbligatorio rendere il più neutro possibile il linguaggio in modo da rispettare l’identità di genere di ciascun individuo. D’altronde, se è vero che l’identità di genere non è binaria, non può neanche esserlo il linguaggio.
Va compiuto sicuramente uno sforzo, nel quotidiano così come nelle manifestazioni di interesse politico. L’uso del genere maschile con valenza neutra è una metodologia obsoleta, spesso contrastata dalla femminilizzazione, ovvero dall’uso al femminile di certi sostantivi che sono utilizzati principalmente nel genere grammaticale opposto. Tale scelta, di stampo femminista e dunque egualitario, sembra rappresentare una soluzione ottimale laddove non è possibile adoperare la neutralizzazione, ovvero la declinazione di sostantivi nella forma neutra. Un esempio? Anziché dire “la professoressa” o “il professore”, sarebbe ideale utilizzare la forma neutra come “il corpo docente”, e così via per le restanti professioni.
Un altro metodo sicuramente apprezzabile è il doppio utilizzo del genere, e dire “buongiorno a tutte e tutti”, “ognuna e ognuno” e così via. Tuttavia, come già specificato precedentemente, se è vero che la lingua italiana è caratterizzata da binarismo grammaticale così non si può di certo affermare per il ventaglio di identità di genere riconosciute. Ed è esattamente in queste circostanze che la lingua sembra non bastare.
Il campo della linguistica è in continua evoluzione, ed è per questa motivazione che una delle ultime modalità per l’inclusione è stata l’introduzione dell’asterisco (*) e della schwa (ə).
Nel caso della schwa la situazione si complica in modo esponenziale. Si tratta di un elemento consonantico trascritto nella forma di una e capovolta, ed è linguisticamente attribuito alla lingua indoeuropea comune. Per comprenderne il suono, basti pensare alla parola inglese “about”: la schwa è il suono iniziale della parola. La strada della schwa si incrocia con la ricerca di equità nell’identità di genere quando i collettivi femministi e intersezionali hanno cominciato ad affermare la loro presenza come individui gender non-conforming.
Una delle prime e stabili attestazioni dello schwa è da reperire in un articolo pubblicato il 2015 da Luca Boschetto, “Proposta per l’introduzione della schwa come desinenza per un italiano neutro rispetto al genere, o italiano inclusivo”. La proposta di Boschetto era quella di utilizzare lo “schwa breve” (ə) per le forme al singolare, e lo “schwa lungo” (3) per i plurali. Il tedesco utilizza, in funzione epicena, la doppia suffissazione che nella forma parlata viene resa con un colpo di glottide. Si tratta però di un suono già riconosciuto dalla grammatica tedesca (si può per esempio ravvisare nella pronuncia di Rührei).
La domanda sorge spontanea: e in italiano? Dove il suono non è previsto? Come bisogna leggere?
Così sono nate forme alternative: al binario del “tutte e tutti” è stato aggiunto il “tuttu”, una sorta di escamotage che strizza l’occhio ai cambiamenti linguistici del panorama internazionale ma che però continua a suscitare in molti lo sdegno. In realtà si tratta soltanto di rendere consapevole una pronuncia che è al momento inconsapevole nei parlanti. La lingua è un sistema che si cambia dal basso, dal parlato allo scritto. E mai viceversa.
Un serpente che si morde la coda, se pensiamo al fatto che la quasi totalità della popolazione (e soprattutto quella eterocisnormata) si rifiuta categoricamente di implementare forme alternative alla classica suddivisione del maschile e al femminile. Più si ritarda l’utilizzo della U, della schwa e di altre forme analoghe, minore è la possibilità di impattare sulle varietà diastratiche della lingua italiana.
L’asterisco subisce una sorte simile, con la generazione approssimativa di una mezza vocale laddove la parola si interrompe, di sicuro un qualcosa al quale la lingua italiana non è abituata.
Un altro dato da tenere in fortissima considerazione è la difficoltà che potrebbero riscontrare persone affette da dislessia o da disturbi dell’apprendimento. In molti trascrittori vocali (text to speech, dal testo al parlato) la prosodia (l’accentuazione, la ritmica) viene alterata e virtualizzata risultando in un testo dalla pronuncia completamente erronea che riduce al minimo la possibilità di comprensione di tale fetta di popolazione. La lessicografia e la lessicologia studiano costantemente metodi alternativi per la ricerca dell’equità linguistica, ma cerca dei metodi che non soffrano di quella matrice abilista che normalizza i parlanti e i discenti privi di disturbi linguistici.
La soluzione al dilemma della lingua sembra essere oggi ancora più lontana che ieri, non per questioni di inerzia o inazione sociale e politica ma piuttosto per la ragione contraria: il risveglio della società LGBT+ e soprattutto l’apertura di nuove istanze sulla libertà e sul principio di autodeterminazione hanno fatto sì che i punti deboli della lingua italiana (e non solo) venissero fuori. L’unica realtà oggettiva è che non soltanto la società è maschilista, ma che lo è anche il sistema linguistico su cui essa si basa e che per anni ha ignorato dapprima le istanze femministe e successivamente quelle di rivendicazione intersezionale nel lavoro, nell’apprendimento, nel vivere comune.
Sta a noi cercare il compromesso, adattarci ai filoni internazionali, a comprendere le motivazioni che muovono gli utilizzatori di schwa, U e asterischi. Senza giudicare, senza aggredire – ma soprattutto ricordando che quando si parla di diritti, di espressione della propria identità e di affermazione del proprio io non esistono tribunali, ma solo buon senso.
Nausica Federico