Vincenzo Capuano
A Napoli il gioco del lotto, com’è noto, è una grande passione popolare. Nacque tanti anni fa per estrarre a sorte i cinque vincitori alle elezioni cittadine, tra centinaia di candidati. Viene da pensare che, visti i risultati delle ultime consultazioni, sarebbe forse il caso di tornare alla vecchia usanza di affidarci alla sorte su scala nazionale. Ma questa affezione particolare della città al gioco è da ricollegare anche al profondo legame del popolo ai suoi morti. Vengono invocati continuamente e, in una sorta di patto tacito tra mondo dei vivi e mondo dei morti, le anime, in cambio del refrisco delle preghiere, di tanto in tanto, attraverso i sogni, indicano ai vivi due o tre numeri vincenti. Purtroppo, però, quasi mai si tratta di numeri precisi. Il sogno va ricordato, narrato (dopo le 12 del mattino, non prima) e solo interpretando cose, avvenimenti e situazioni sognate, secondo l’antico vocabolario della Smorfia, si otterranno i numeri da giocare. A leggere nei sogni, però, non sono capaci tutti. Solo alcuni hanno “il dono”; li chiamano assistiti. E la ragione è molto semplice: una formula battesimale, pronunciata in modo errato o incompleto, li collocherebbe per sempre su quel confine magico, dove si è vivi e morti, carne e pesce, umano e animale, piccoli e adulti, pazzi e savi. Molti di loro non sono né maschio e né femmina: come i femminielli.
A Napoli i deboli sono i maschi. Sono spesso belli e forti e con corpi massicci e muscolosi o magri e nervosi. Ma la sostanza della città è femmina, come una grande madre. Bisogna proteggerli questi uomini. E posso immaginare quale estremo sacrificio erano pronte a sopportare quelle donne del ’43, pur di non vedere i propri figli grandi e mariti deportati e uccisi dai nazisti. Si era passato il segno e, così, in prima fila, con in braccio i bambini più piccoli e quelli un po’ più grandicelli a costruire le barricate nei vicoli, col loro corpo affrontarono il nemico. Diedero inizio alla cacciata dei nazisti dalla città, alle Quattro Giornate di Napoli. Pronte a tutto, come chi sa che in gioco è il bene più grande e che, senza quello, non si avrà più nulla da perdere. Finché qualcuno, terrorizzato, al culmine degli scontri, nella zona di San Giovanniello bussò alla porta di uno di quei bassi che segnano il confine tra l’aldilà e l’aldiquà, invocando aiuto: “Arrivano i nazisti!”. La porta si aprì e ne dovette uscire un uomo con gli occhi forse bistrati, la voce cavernosa, la canottiera e qualcosa di sgargiante e dimesso, da vecchia signora decaduta: Vicienz ‘o femminiello. Vincenzo Perrotta quando si prostituiva si faceva chiamare Enza Fiore, ma tutti lo conoscevano come Vicienz’o femminiello. Chissà se chi era lì si accorse che da quel basso spalancato sul vicolo erano uscite a combattere anche le anime dei morti, coi loro numeri in mano. Fatto sta, che Enza Fiore e gli altri femminielli imbracciarono le armi e, tra via Foria e piazza Carlo III, quel 28 settembre del ’43 contribuirono in modo determinante alla messa in fuga dei nazisti.
Quando Antonio Amoretti per la prima volta ne raccontò la storia nel 2016 durante un incontro nella sede di Antinoo Arcigay Napoli, qualcuno forse si stupì. L’ipocrisia fascista aveva costretto i femminielli a prostituirsi nei vicoli più nascosti. I gerarchi li frequentavano quei bassi e poi volavano via nella notte, senza battere i tacchi, per non farsi sentire. Per la vergogna. L’ipocrisia odierna per anni li aveva relegati nei vicoli della dimenticanza; aveva cancellato la memoria di tanti valorosi napoletani. Ma a Napoli dove – si sa – i confini sono sottilissimi e tutto può sempre cambiar di segno, i morti, se trovano un varco nella storia, un basso aperto, tornano di qua e i veri forti diventano quelli che il senso comune reputa deboli: le donne, i bambini, i femminielli. I poveri.
Antonio li ricordava sempre i più deboli. Ricordava che, insieme agli ebrei e agli avversari politici, erano morti a migliaia nei campi di concentramento nazisti e vittime della furia criminale fascista. Li ricordava perché era un uomo onesto e conosceva le avanguardie vere, perché ne aveva fatto parte, quando aveva guidato i bambini allo scontro delle Quattro Giornate e quando non si stancava, ovunque, nonostante la tarda età, di raccontare chi è dalla parte giusta della Storia. E ora che è andato a raggiungere Vincenzo o’ femminiello, tutta la comunità Lgbt gli è grata, per averne riconosciuto il valore, per aver combattuto il razzismo e coltivato il coraggio e la speranza. Per aver ricordato, soprattutto ai “nostri”, ai tanti che oggi pensano che la spesa non vale l’impresa, perché “sì, è giusto; ma non ci credo più di tanto che le cose possano cambiare”, che le cose possono cambiare e possono cambiare anche in peggio. Che così si fa il gioco dei fascisti; che sono sempre lì, in agguato, anche loro pronti a tornare. Lo vediamo.
Dal canto nostro, posso dire che le porte di quei bassi noi non le abbiamo più chiuse e le teniamo aperte e che dalla nostra, forse, chissà, abbiamo le anime di certi morti. Due di loro – di questo siamo sicuri – si sono rivisti e si tengono abbracciati, da buoni amici. Per sempre.
In foto Vincenzo o’ femminiello del rione San Giovanniello
foto novembre 1967 dell’Archivio fotografico Carbone – Napoli.