Sharon Santarelli
Mentre la Francia, agli inizi di Marzo, ha inserito il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza nella Costituzione, in Italia siamo ancora alle prese con la legge 194 del 1978 e la difficoltà nel rispettarla. All’articolo 34 della carta costituzione francese è stata aggiunta, infatti, la frase: “La legge determina le condizioni in cui si esercita la libertà garantita alla donna di far ricorso ad un’interruzione volontaria della gravidanza”.
“Abbiamo un debito morale” nei confronti di tutte le donne che hanno “sofferto” a causa di aborti illegali, ha dichiarato il primo ministro Gabriel Attal, aprendo il dibattito parlamentare che ha segnato la svolta storica del Paese d’oltralpe.
Mentre in Francia accadeva l’ennesima “rivoluzione dei diritti”, in Italia, dobbiamo ancora cercare di difendere il diritto di interrompere volontariamente una gravidanza.
Diritto che le donne possono esercitare grazie alla legge 194 del 1978.
Il vero problema, è che la 194 è una legge facilmente “svuotabile” e, soprattutto, concede la possibilità ai medici di scegliere di non praticare l’Interruzione Volontaria di Gravidanza.
Secondo gli ultimi report ministeriali, 7 medici su 10 sono obiettori di coscienza (si rifiutano quindi di praticare l’aborto).
Altri riportano invece dati superiori. Da quello Mai Dati di Chiara Lalli e Sonia Montegiove si evince che, in Italia, ci sono 72 ospedali con l’80-100% di obiettori di coscienza tra il personale sanitario, 22 ospedali e 4 consultori con il 100% di obiettori tra il personale sanitario, 18 ospedali con il 100% di ginecologi obiettori e 46 strutture con una percentuale di obiettori superiore all’80%.
La Ministra della Natalità e delle Pari Opportunità Eugenia Roccella, passata oramai alla cronaca per le sue continue affermazioni più pro vita che pro IVG – nonostante, discutibilmente, lei si professi femminista – , ha sostenuto più di una volta che “in Italia è più difficile trovare un ospedale dove partorire che dove praticare l’aborto”. Ora, se fosse realmente come sostiene la Roccella, le consiglierei vivamente di chiamare il suo collega Orazio Schillaci, Ministro della Salute dell’attuale governo Meloni, perché il problema sarebbe veramente enorme e difficile da risolvere. Fortunatamente, i dati, rispetto alle parole, sono inconfutabili.
Quello di cui non riesco a capacitarmi però è come mai ad un medico sia concessa la possibilità di non praticare l’IVG. Se si cerca di indagare, sul perché quest’ultimi decidano di essere obiettori di coscienza, da una parte prevale la scelta dettata dal credo religioso da una parte molti sostengono che non solo si è mal visti dai colleghi e dai superiori ma si guadagni poco e sopratutto, essendo interventi molto semplici, non si faccia carriera.
Ora, è un pò come andare dal Notaio (che per legge non può rifiutarsi di ricevere un atto a meno che, questo, non sia contrario alla legge) e sentirsi rispondere: “No Signora, il suo atto di compravendita di un garage di 20 metri quadrati non lo voglio stipulare. Sa, voglio fare carriera e farmi un nome. Stipulo sotto compravendite di immobili con una valore superiore ai 300.000,00 Euro”.
Non venitemi a dire che ho paragonato un figlio ad un garage. Ditemi piuttosto che se studi, se va bene, medicina per 10 anni il medico poi lo devi fare. E farlo significa operare appendiciti, tumori, mettere protesi agli arti e anche praticare l’IVG. Non c’è differenza.
Cara Ministra Roccella, provi a cercare di praticare l’IVG nelle Marche o in Umbria (da sempre regioni con una percentuale di medici obiettori di coscienza da far impallidire qualsiasi statista). Provi a farlo in quei luoghi ove, la maggior parte delle volte, cambiare provincia non è sufficiente per riuscire ad esercitare un diritto; in quelli regioni dove una donna non riesce ad abortire e, per farlo, è obbligata a recarsi in un’altra Regione. Provi ad abortire, per esempio, all’ospedale civile dell’Annunziata di Cosenza, in Calabria, dove i ginecologi sono tutti obiettori di coscienza e dove è possibile praticare l’interruzione di gravidanza solo due volte alla settimana quando è presente il medico “a gettone” che pratica l’ivg.
Provi, per una volta, un pò di empatia e (invece di pensare ad incrementare – con politiche seriamente discutibili – la natalità nel nostro Paese) cerchi di mettersi nei panni di quelle donne che decidono che, in quel momento, un figlio non rientra nel loro percorso. Le motivazioni non la riguardano. Non riguardano nessuno. Non è una scelta che deve fare nessun’altro, se non la donna. Provi a far sì che queste donne siano rispettate in quanto persone e non in quanto “contenitore per la riproduzione”.
Ci sono racconti di donne che si sono recate in strutture ospedaliere per praticare l’IVG che affermano di essersi ritrovate in una stanza con una persona che non solo le ha offerto soldi per tenere il bambino, ma l’ha anche obbligata ad ascoltare il battito cardiaco del feto per far loro cambiare idea.
Non pensate che i soldi offerti a queste donne siano una “mazzetta” che qualche soggetto dei comitati pro-vita si preleva dal proprio conto corrente. Sono soldi pubblici.
Per esempio, la Regione Piemonte, quest’anno, ha stanziato un fondo di 1 milione di Euro da destinare a “Vita Nascente” (un comitato pro vita). I soldi di questo fondo vengono utilizzati (a loro dire) per sostenere economicamente le donne che cambiano idea e decidono di non praticare l’aborto. Ovviamente moltissime Regioni italiane stanziano ogni anno questi fondi che vengono gestiti dai comitati-pro vita che, grazie alla presentazione di progetti, ottengono queste risorse che vengono utilizzate come merce di scambio.
L’ennesima violenza che una donna deve subire durante la propria vita.
Ma non sarebbe più giusto destinare queste risorse economiche per sostenere le famiglie nei primi anni di nascita dei figli, magari tramite asili gratuiti? Non sarebbe più semplice sostenere le donne che, liberamente, hanno scelto di essere madri, invece di “ricattare” economicamente quelle che sono indecise sull’esserlo o meno?
Il vero problema di questo Paese, al 79 ° posto (su 146) del Global Gender Gap Report 2023 del World Economic Forum (WEF), è che l’Italia non è un Paese per donne.
Non lo è per la differenza netta sui salari, per l’IVA sugli assorbenti ed i prodotti per i neonati, non lo è per il sostegno (su tutti i fronti, sia chiaro, non solo su quello economico), pressoché inesistente, dato alle madri nei primi anni di vita dei figli, non lo è per le politiche divisive che da sempre hanno strumentalizzato la donna ed il suo corpo per i soli scopi propagandistici senza mai, realmente, fare qualcosa per cambiare le cose.
Qualcuno si aspettava che un governo con a capo una donna potesse essere la spinta giusta per far cambiare la società patriarcale in cui viviamo. Purtroppo però è sempre più palese che, nel nostro Paese, più di 70 anni dopo l’entrata in vigore della 194 bisogna anche difendere, a spada tratta, un diritto che le donne si sono conquistate ma che, ad oggi, difficilmente viene rispettato.