Claudio Finelli
Qualche giorno fa, la stampa ha riportato la notizia di uno scandalo che attingerebbe il carcere di Rebibbia a Roma dove, secondo quanto sarebbe stato riferito tramite una denuncia giunta in Procura, due guardie carcerarie avrebbero avuto incontri sessuali con detenute transgender.
Il reato contestato sarebbe però di induzione indebita e non violenza sessuale, in quanto la donna transgender avrebbe accondisceso a rapporti sessuali per migliorare la propria condizione carceraria.
L’avvocato di uno dei poliziotti indagati ha, inoltre, riferito che il suo assistito, durante l’interrogatorio, avrebbe negato di aver avuto i contestati rapporti sessuali.
Insieme a questa vicenda, che getta ombre inquietanti sulla situazione delle persone trans in carcere, sarebbe stata però riferita anche la notizia – che certo non costituisce ipotesi di reato – di un matrimonio.
Per commentare queste notizie e approfondire la questione relativa alla detenzione delle persone transgender, abbiamo contatto Daniela Lourdes Falanga, responsabile per le politiche trans di Antinoo Arcigay Napoli e consigliera nazionale Arcigay con delega alla legalità.
Daniela Lourdes Falanga ha svolto un ruolo di centrale importanza nelle progettazioni portate avanti da Antinoo Arcigay Napoli e Pride Vesuvio Rainbow, insieme alla Fondazione GIC, al Centro SINAPSI e all’associazione ALFIE Le Maree, in alcune carceri campane, negli ultimi anni. Per ricordarne alcune: il Progetto Fortunato nel Carcere di Poggioreale (sostenuto da Fondazione con il Sud nell’ambito del bando E vado a lavorare) finalizzato alla costituzione di una Cooperativa di produzione di taralli napoletani in collaborazione con Leopoldo, storica taralleria partenopea; il Progetto Cucina Arcobaleno, corso di cucina mediterranea per donne trans nel carcere di Secondigliano; corso di educazione civica, contrasto alla discriminazioni e avanzamento dei diritti civili con i detenuti e le detenute GBT (e non) di ben 9 padiglioni del carcere di Poggioreale e gli sportelli Al di là del Muro e Over The Rainbow, rispettivamente attivi da anni a Poggioreale e Pozzuoli, dove da poco è partito anche il progetto “Carta Libera”, finanziato dalla Regione Campania.
Da consigliera nazionale Arcigay con delega per le persone Lgbt detenute e da attivista particolarmente attenta e sensibile alla condizione carceraria delle persone Lgbt+, e non solo, cosa ne pensi della vicenda che attinge due guardie carcerarie che, a Rebibbia, avrebbero avuto incontri sessuali con detenute trans in cambio di favori?
È un fatto di cronaca che mi riporta a tanti racconti ascoltati nell’ambito della mia esperienza nelle carceri, negli anni passati. Racconti mai indagati perché toccano la sfera personale delle donne transgender detenute e della polizia penitenziaria. Fatti spesso esposti con rabbia e frustrazione dalle detenute e mai denunciati per paura, per proteggersi, per non destare attenzioni negative.
Insomma, niente di nuovo. In ogni caso, sono pochissime le denunce e spesso non vengono seriamente considerate. Negli spazi della pena, le persone trans detenute sono quelle più trascurate e, nella popolazione trans, quelle costantemente vessate. Basta considerare che non esistono regole e spazi ad hoc per le persone trans detenute e manca la formazione per gli operatori e le operatrici del carcere. Inoltre, gli operatori cambiano spesso spazi di lavoro e padiglioni per cui, i pochi formati, non riescono davvero a incidere sulla condizione delle persone trans.
Nella denuncia relativa a Rebibbia spunta pure un matrimonio su cui non ci sono reati contestati. Ma davvero l’amore sboccia anche in carcere? Sei stata testimone di storie d’amore nate dietro le sbarre – a Poggioreale si sono celebrate delle unioni civili – secondo te, le storie d’amore che nascono in carcere, possono continuare anche dopo la fine della pena?
Chi entra in carcere porta con sé tutto il proprio “bagaglio” umano. Le esperienze, l’istinto, la fantasia non si arrestano.
L’amore è parte di quanto si continua a provare, insieme ai desideri sessuali.
In carcere sboccia anche l’amore, in alcuni casi si vive la sessualità. Sono state tante le persone che si sono incontrate in carcere e si sono unite civilmente. Alcune storie continuano, altre si perdono appena gli spazi cambiano e uno dei due acquisisce libertà.
Le relazioni continuano se nascono nella lealtà e non nel bisogno di ottenere favori. E purtroppo le fragilità emotive e psicologiche creano molta solitudine e alimentano il bisogno di attenzioni, a volte molto negative.
Secondo quella che è la tua esperienza, realizzata come operatrice nelle carceri di Poggioreale e Secondigliano, qual è generalmente la relazione tra detenute transgender e agenti carcerari? Come valuti, dal tuo osservatorio, la vita delle persone Lgbt+ in carcere?
Si dovrebbe fare un’analisi complessa che tiene conto del tempo e di come sia cambiato molto l’approccio con le soggettività trans in carcere da parte degli agenti carcerari negli anni.
Tempo fa era davvero difficile trovare situazioni equilibrate. Oggi, grazie al cambio generazionale, la polizia penitenziaria ha maggiore possibilità di acquisire formazione e metterla in pratica, quindi si incontrano anche agenti molto disponibili e sensibili. Certo non è facile la vita in carcere; il carcere diventa uno spazio ancora più angusto e insopportabile quando, dietro alle sbarre, arrivano storie di abbandono, vite ai margini e negazioni. Spesso per le persone trans è più difficile la convivenza forzata con le altre persone trans. Il vissuto non aiuta se è di totale sofferenza perché non lascia spazio ad alcuna volontà di collaborazione.
Per questo la questione carceri LGBTQIA+ resta tra le più complesse.
L’attenzione su questa questione dovrebbe portarsi negli spazi più alti del potere e non essere più sottovalutata, per trovare soluzioni concrete alla disperazione di persone che non sono riconosciute anche durante i tempi della pena.